Mainarde meridionali

Monte Mare, Monte Ferruccia, Monte Cavallo e Monte Forcellone

Fallita la due giorni sulla Majella per me e Luca questa giornata doveva essere un ripiego, una specie di ruota di scorta ed invece ne è uscita una giornata da far rimenere nel cuore per sempre, C’è stato tutto: sole, vento fresco che ha allegerito la fatica, passaggi nel bosco, attraversamento di ampi pianori, e nebbia in cui diventa difficile capire dove sei e poi momenti di assoluta serenità in paesaggi selvaggi come mai, sentieri inventati, forre da percorrere e salite al limite della fattibilità su un terreno insidioso fatto solo di verticalità e ciuffi d’erba a cui affidare il proprio equilibrio e alla fine vette, riposo in vetta e la soddisfazione che la montagna è bella anche lontano dai grandi percorsi. L’escursione inizia sotto un cielo sgombro da nubi, in un Piani di Mezzo già affollato e vivo alle 6 e 40, popolato di campi tenda e auto parcheggiate; qualche indigeno in cerca di cicoria e i primi ragazzi dei campi che assonnati ciondolavano vagabondi in attesa del risveglio generale. Prendiamo il sentiero a destra del Monte Nese dove al di là del breve tratto di bosco delle Forestelle ci si spalanca il grande altipiano dunoso che si chiude tra il Cavallo ed il Forcellone, anzi ad essere più precisi tra il Monte Cavallo ed il Monte Predicopeglia, un duemila mancato di soli 54 metri. Ci teniamo a destra del sentiero classico, saliamo alcuni rotondi rilievi rocciosi dove il procedere si fa già avventura e costeggiamo le pendici ghiaiose del Predicopeglia. Intanto un leggero vento si solleva a non farci sentire la fatica del percorso; peccato che subito dopo scure nubi si vanno addensando sulle creste verso Est a non promettere nulla di buono. Scendiamo dentro l’altipiano e facciamo conoscenza con due signori, di certo indigeni, che sono piegati ad armeggiare nel raccogliere qualcosa. E’ tanta la mia curiosità da chiedergli cosa stessero raccogliendo, non mi sembrava zona di funghi, e ancora di più è stata la loro cordialità. Semplicemente cicoria raccoglievano, qualla col gambuccio bianco, ci hanno insegnato, e a scanso di equivoci ci hanno estratto a ripetizione i piccoli ciuffi di erba selvatica; da fare in insalata, ci hanno detto, da fare lessata abbiamo pensato io e Luca, pensando alle tante greggi che avranno calpestato quei prati. Ci salutiamo cordialmente, oltrepassiamo il ruscello ora tornato a scorrere timidamente e ci inerpichiamo verso la sella ad Est del Monte Cavallo. Mentre notavamo un addensarsi preoccupante delle nubi, mentre poco più in alto sul sentiero, le stesse ci sono piombate addosso facendo perdere ogni percezione del luogo. E’ sparito il Monte Cavallo, è sparito il Predicopeglia e insieme sono spariti i nostri entusiasmi. Erano si e no le otto del mattino ed essere già in mezzo alle nubi non era certo una bella prospettiva. Raggiungiamo la sella e subito al di là ci si spalanca la Val Venafrana, allagata dal sole e dietro la nostra prima meta, il Monte Mare. Scendiamo dentro la valle e risaliamo le pendici sotto il Cappello del Prete, tagliamo di traverso facendoci ammaliare dalla mole del gruppo del Cavallo e disturbando prima una coppia di cavalli bellissimi dalla criniera chiara e dal pelo fulvo e poi una mandria di spaurite mucche; scompariamo dentro un breve tratto di bosco. Quando ne usciamo la mole del Monte Mare ci sovrasta; il verdeggiante spigolo Nord del monte ci traccia la linea perfetta per raggiungerlo; contorniamo la fitta vegetazione e le ripide pareti del Cappello del Prete e in un attimo ci troviamo in sella. Ora lo spigolo è sopra di noi; incute un senso di fatica prossima e di sofferenza tanto sembra lungo e ripido. Lo aggrediamo senza indugio facendoci coraggio a vicenda ma dopo un primo tratto fatto in scioltezza quella che sembrava essere una minaccia si è tramutata in fiato corto e gambe pesanti. Luca avanti come sempre e dietro io, questa volta finalmente e di nuovo in forma , lentamente sentiamo il pendio farsi leggero sotto i nostri piedi, scorgiamo un’importante ometto di vetta, non vediamo più salite. Capiamo di essere in meta. Sono le 9 e 20. Le nubi girano tutto attorno rendendo gli orizzonti ora cupi ora lumiosi. Davanti il Cavallo è un radio faro con la sua imponente presenza ormai costante della giornata, si dimostrerà essere il mio bersaglio fotografico preferito della giornata. Davanti una cresta lunga qualche centinaio di metri ed in fondo un altro ometto. Che sia quella la cima del Monte Mare? Ed il Ferruccia è quel monte al di là della sella sottostante? Ma non sembra essere troppo basso per toccare i 2000 metri? Non ci va di indugiare; Luca è d’accordo nel andare a scoprire laggiù la verità sulle cime raggiunte. E’ talmente breve il percorso di cresta coperto in soli 10 minuti, che mi sembra scontato pensare se non alla cima ad una sorta di anticima del Monte Mare. In effetti da qui si è palesemente più in basso che non nella precedente cima. Ma il dubbio che quel monte laggiù, oltre la sella, per altro bellissimo e con una bella croce in cima, potesse essere il Monte Ferruccia mi assillava. Non rimaneva che consultare la carta; appena sotto la vetta in un ampio pianoro erboso coperto dal vento ci siamo accampati e carta alla mano abbiamo scoperto di aver bruciato le tappe. Eravamo davvero sul Ferruccia e quello laggiù era il Monte Marrone un bellissimo 1800 metri appena sfiorati. Le solite foto di rito e scappiamo indietro per evitare le fredde raffiche di vento che nel frattempo era sorto a farci congelare. Altri dieci minuti e raggiungiamo di nuovo la vetta principale del gruppo, siamo sui 2020 metri del Monte Mare. Inutile guardare ed Ovest; il Tirreno non si vede. Solo grosse e basse nubi a rincorrersi, ora a coprire anche il Cavallo. Ad Est le nubi erano più chiare; sotto faceva bella mostra il turchese del Lago di Castel San Vincenzo incastonato negli scuri boschi di faggi e aceri. A Nord invece l’andirivieni delle ondulate cime delle creste del Cappello del Prete e delle Coste dell’Altare. Più dietro, confuse tra le nubi il Monte a Mare e la Metuccia. Ma il freddo amplificato dalle raffiche del vento ci sta entrando nelle ossa; il tempo delle foto e di studiare un percorso alternativo per aggredire il Cavallo che alle 9 e 40 siamo già a volare in discesa verso la sella sottostante. Nei miei piani c’era di aggredire il Cavallo dallo spigolo Nord, già percorso in invernale due anni fa, ma l’attraversamento della Val Venafrana più volte mi aveva distratto e suggerito una salita alternativa e nuova lungo i fianchi scoscesi ad est del monte. In sella individuiamo una cresta minore che sporge e si abbassa verso il bosco e la valle sottostante il Cavallo. Sotto, un sentiero taglia il bosco, ricompare nei prati, rientra nel bosco nell’altro versante e sembra condurre su delle linee naturali che tagliando il fianco da Sud a Nord sembrano condurre agevolmente sulle sommità della creste. Decidiamo di tentare la sortita; l’originalità del percorso ci eccita. Subito il pendio erboso si fa ripido ed insidioso e sembra precipitare sul bosco sottostante; scivolo su un masso instabile ma per fortuna me la cavo solo con qualche leggero graffio alle gambe; praticamente precipitiamo sulla parete del monte, entriamo nel bosco e procedere si fa più agevole. Lo tagliamo verso sinistra, verso sud per intenderci, ma solamente per una sorta di immagine geografica stampata nella memoria visiva che tanto ho cercato di imprimere dall’alto del Monte Mare perché poco ci è dato alla vista e all’orientamento visivo dal folto delle chiome degli alberi. Raggiungiamo ben presto il fondo valle, la Valle del Rio Chiaro che più che chiaro sarebbe meglio definire secco, solitaria e selvaggia come poche, incassata tra il Monte Mare ed il Cavallo, senza nessun orizzonte che riportasse a passi conosciuti ed immersa nella quiete dei boschi. Intercettiamo il sentiero visto dall’alto e dopo una leggera indecisione dovuta a dei segnavia che non era ben chiaro dove conducessero, riprendiamo la direzione sud che avrebbe dovuto portarci in cresta al Cavallo. Entrando nel bosco però, il sentiero si dissolve e dobbiamo procedere affidandoci solo ai nostri sensi di orientamento. Tratti di cresta e la vetta del Monte Mare che ogni tanto spuntano dagli alberi ci devono bastare per capire la direzione da prendere. Continuiamo verso sud, dentro il bosco, cercando di guadagnare quota tagliando il pendio. Usciamo dal bosco, attratti da un tratto di cresta che sembra vicino, ma ci accorgiamo subito che abbiamo anticipato di un po’ l’attacco alla parete. Il punto in cui usciamo è ripido, potremmo anche superarlo ma ci faccciamo attrarre da una gola che a poche decine di metri si infila nella montagna. E’ asciutta e sassosa, stretta e percorribile; per quel che si può vedere si inerpica lentamente all’interno della montagna. Decidiamo di tentare. Il primo tratto è affascinante, stretta in alcuni tratti la forra è disseminata di grosse rocce; è facile progredire di qualche centinaio di metri, di certo un diversivo ai soliti sentieri. Poi la gola si allarga e vira verso nord ovest e comunque da dove la guardi la vedi terminare su pareti scoscese. In alto sopra di noi l’evidente linea obliqua di una comoda e larga traccia che era poi quella individuata dall’alto per raggiungere agevolmente la cresta. Dal fondo della cresta un tratto dominato da un tappeto erboso e da qualche roccia sporgente sembra il punto più agevole per salire in cresta. Una quarantina di metri di dislivello che abbiamo aggredito con spavalderia e scioltezza. Sembrava appoggiato alla montagna, fino a che non ci siamo trovati ai due terzi della salita, dove il pendio si è fatto quasi vertiginoso e dove il nostro equilibrio era affidato alla sola consistenza, per fortuna solida, dei ciuffi d’erba. Con un po’ d’ansia abbiamo raggiunto i tratti rocciosi ma la speranza di essere fuori dai patemi si è infranta nella friabilità e instabilità delle rocce stesse. Non è rimasto che continuare con la tecnica precedente e con le gambe un po’ in tiro per il comparire di crampi siamo comunque usciti in cresta senza troppe complicazioni. Solo dall’alto, con l’adrenalina che andava perdendosi abbiamo avuto la vera consapevolezza di ciò che avevamo appena salito. Un muro erboso! Comunque eravamo ormai alti e le creste del cavallo erano davanti a noi di circa un chilometro. Lo stupore di incontrare due escursionisti in quell’angolo remoto delle Mainarde ci da l’occasione per scambiare due parole e di conoscere ancora meglio il posto. Il paesaggio è ondulato e la cresta la raggiungiamo agevolmente in un pendio che si fa percorrere in scioltezza; poi la cresta vera e propria, lunghissima e dominata da grosse rocce levigate e scolpite dagli agenti atmosferici , sale verso nord. E’ un passaggio continuo in equilibrio sulle rocce. Divertente , a tratti entusiasmante sembra interminabile; quando pensi di aver raggiunto la vetta un altro tratto di cresta ti si para davanti. Un bel luogo per portare a casa ricordi; scattiamo un sacco di foto. Intanto più saliamo e più il fastidioso vento che ci aveva infreddolito sul Mare torna a soffiare; alle 12 e 05 siamo sulla vetta del Monte Cavallo; il solito omino di cima e la solita scritta, del solito colore, con la solita calligrafia è lì a testimoniare i 2039 metri del Monte Cavallo. Luca è euforico per la conquista e per come è stata raggiunta. Ammiriamo dall’alto il lungo giro compiuto a scendere dal Monte Mare e ci congratuliamo con noi stessi per il progetto inventato e portato a termine. Dopo le solite foto di rito ci accampiamo sotto le rocce di vetta, in uno spiazzo erboso affacciato sulla verticalità della perete est del Cavallo. Siamo coperti dal vento e graziati dalle nuvole; è un momento delizioso per riposare e rimirare le creste est delle Mainarde. Ci muoviamo solo 40 minuti dopo. Scendiamo la pietrosa parete ovest del Cavallo verso la valle Monacesca proprio mentre il Forcellone davanti a noi viene inghiottito rapidamente dalla nebbia. Ma il percorso era evidente e nei primi tratti la visibità assicurava comunque una facile direzionalità. Un sentiero che ben presto però si è perso nelle rocce disseminate e la nebbia che salendo si faceva sempre più fitta ci ha poi reso prudenti e lenti. Cercavo di raccogliere tracce di memoria per individuare tratti già conosciuti ma tutto nella nebbia sempre più fitta era uguale al tratto precedente. Salivo tenendo d’occhio la bussola e puntando verso l’alto in quella che sembrava essere la linea naturale della montagna. Nella nebbia il tempo non scorre più e non vengono più restituite le reali proporzioni spazio tempo. Sembra una eternità che si cammina; puntiamo sempre in direzione sud est, controllo ogni 50 metri una eventuale deviazione di percorso. Penso che non riusciremo a trovare il punto di discesa della parete nord del Forcellone per cui la cosa più saggia è quella di concentrarsi per ripercorrere la via di ritorno per la stessa di andata. Poi un primo salto obliquo roccioso mi ricorda un passaggio invernale che somigliava ad un piccolo muro obliquo. Se ricordavo bene poco sopra doveva essercene un altro simile che conduceva rapidamente alla croce di vetta. Ricordavo bene, Luca era già lì sopra a percorrelo a ad esultare per la comparsa della piccola croce della sommità del Forcellone. La nebbia falsa tutto ho detto poc’anzi e la conferma deriva dallo stupore con cui registro l’ora di arrivo: sono le 13 e 40. Solo un’ora per scendere dal Cavallo e toccare la cima del Forcellone, nonostante la nebbia!! La visibilità è pressochè nulla. Ci scattiamo poche foto e prendiamo atto che è stato da poco cementato un basamento per una croce più importante. Forse basterà questo per programmare una nuova missione su questa bella montagna, tanto bella quanto timida; per me si tratta della terza salita e per due volte ho potuto godere dello stesso panorama; praticamente la sola croce a tanto bianco lattiginoso intorno. Del Forcellone mi rimarrà questo come ricordo principale, oltre naturalmente la maestosa parete che domina il piano fino alle Forestelle. Non sarei in grado di scendere per la dorsale nord che degrada verso il piano e giudico più prudente riprendere la via della salita per tornare. Di certo avremmo allungato di molto ma le speranze di non girare a vuoto si riducevano enormemente. Un occhio fissato alla bussola per mantenere la direzione ed uno a cercare paesaggi conosciuti eppure per due volte ci siamo trovati fuori direzione; per due volte abbiamo dovuto ritornare decisamente verso nord ed alla fine ci siamo ritrovati sui dirupi delle guglie del Predicopeglia. Troppo avanti sul percorso di casa ma finalmente con un punto di riferimento. Un camoscio accovacciato tra le rocce non si è scomposto minimante per la nostra irruzione e noi non lo abbiamo voluto ulteriormente infastidire. Per la cresta siamo scesi sul piano e da li per la sella verso la via del ritorno ormai priva di nebbia. L’unica incognita solo qualche goccia di pioggia che ogni tanto si faceva sentire. Abbiamo quadagnato il piano all’altezza del ruscello che fila via povero d’acqua e che nasce dalla fonte poco sopra. Un branco di cavalli, qualche mulo e poco sotto mucche ruminanti si godevano la quiete del vallone. Solo un puledro curioso come tutti i cuccioli si è interessato a noi ed ha preso a seguirci; richiami indispettiti per la nostra indifferenza ci esaltavano per tanta cordialità! Sarebbe stato bello fermarsi e accarezzarlo un po’, ma si sa, bisogna stare lontani dai puledri, le mamme cavallo non sono altrettanto socievoli verso chi importuna i propri cuccioli. Rimarrà nella memoria del cavalluccio la poca socievolezza umana. Fino ai Piani di Mezzo è stata una allegra passeggiata fatta di impressioni e gioia di aver passato una magnifica e inaspettata giornata. Per completare il giro questa volta abbiamo aggirato a destra il Monte Nese per guadagnare i Prati di Mezzo dalla parte degli impianti da sci. Un Piani di Mezzo popolato di scout, di gente e vivo come mai ho visto. Arriviamo alle ore 15 esatte. Otto ore e venti minuti per compiere un percorso di 16 chilometri ed un dislivello di sola salita di circa 1500 metri. Nel mentre il cielo si andava facendo sempre più cupo e come altre volte è capitato ci è stato dato solo il tempo di risistemarci e porre gli zaini in macchina che è venuto a piovere. Certamente solo una questione di …… cuore!